Parole comuni possono essere validamente registrate come marchi? Invece, cosa succede se sono i marchi a diventare parole di uso comune?
Parole comuni possono essere registrate come marchi? La risposta è affermativa, a patto che siano rispettate determinate condizioni tra le quali, in primis, il fatto che le parole del linguaggio comune abbiano capacità distintiva rispetto ai prodotti/servizi che andranno a contraddistinguere sul mercato.
Un consolidato orientamento giurisprudenziale, infatti, vieta la registrazione di parole o espressioni desunte dal linguaggio comune che siano esclusivamente descrittive dei prodotti/servizi cui si riferiscono, proprio per il fatto, in tale eventualità, di essere prive di capacità distintiva se, come avviene, non posseggono una specifica intrinseca forza creativa o originalità, ma si limitano solo a descrivere le caratteristiche dei prodotti/servizi di riferimento.
Diversamente, il medesimo orientamento salva, nell’ambito di tale generale divieto, l’ipotesi in cui termini del linguaggio comune invece non presentino alcuna aderenza concettuale con il prodotto/servizio che identificano, ma siano ad esso collegate da un accostamento di pura fantasia, tale da consentire di riconoscervi carattere originale ed efficacia individualizzante (Cassazione, Sez. 1, 9/10/1992, n. 11017; 30/011985, n. 573).
Se state leggendo queste righe, ci sono buone probabilità che lo stiate facendo su un dispositivo Apple® oppure con sistema operativo Windows®, che sono parole presenti nei vocabolari inglesi e che significano, rispettivamente, “mela” e “finestre”.
Ciò significa che non si possono più utilizzare queste due parole? Certo che no, a meno che non vogliate impiegarle in un contesto hi-tech. La ragione che ha permesso alle aziende di Steve Jobs e di Bill Gates di ottenere in primo luogo il diritto d’uso esclusivo e di registrazione su queste parole comuni è che esiste una significativa discrepanza tra il loro significato e i prodotti tecnologici a cui esse sono associati: d’altronde, cosa c’entra una mela o una finestra con i computer o i cellulari?
Entrambe le aziende sono state originali nella scelta di registrare parole comuni come marchi per il settore di mercato dei prodotti hi-tech, in grado di sorprendere il consumatore che, grazie alla qualità dei prodotti ma anche alle incisive campagne pubblicitarie e promozionali delle due aziende, ha imparato ad associare subito Apple® e Windows® a prodotti come il computer, lo smartphone, più in generale alla tecnologia e all’innovazione.
Anche la creazione di un marchio a partire dall’associazione inusuale di parole comuni, associazione che sia in grado di deviare dai comuni significati delle parole prescelte, può diventare un asset inestimabile per un’azienda. Se il consumatore è indotto ad associare, alle parole d’uso comune che contraddistinguono il marchio, l’universo valoriale del marchio e la stessa mission aziendale ad esso soggiacente, giungendo a sperimentare con soddisfazione l’acquisto del prodotto/servizio contrassegnato dal marchio, sarà certo motivato a ripetere tale esperienza più volte.
Tuttavia, in particolare nel caso dei marchi formati da parole comuni e non, proprio la notorietà del marchio a volte può rendere difficile al consumatore di identificare la tipologia del prodotto con un altro nome, così che il rischio è l’insorgere del fenomeno della c.d. “volgarizzazione del marchio” usato per indicare una situazione in cui quest’ultimo diventa denominazione generica di un prodotto o una tipologia di prodotto, al punto che il marchio possa perdere nella mente dei consumatori la sua associazione con l’azienda che l’ha creato.
È fondamentale registrare il marchio prescelto, quindi, una volta registrato, associare il nome del marchio al prodotto/servizio da esso tutelato utilizzando sul mercato il simbolo di marchio registrato (®), in modo da rendere la tutela giuridica ancora più visibile ed evidente.
Non meno importante è il ruolo attivo dell’azienda, chiamata a vigilare su tale fenomeno e ad intervenire ogni volta che avverte l’utilizzo del marchio in questione da parte di terzi in maniera generica e impropria per descrivere una tipologia di prodotto.
Un esempio? L’azienda 3M Company che lotta attivamente contro l’uso improprio di due dei suoi marchi registrati: sia del piccolo quadratino di carta adesiva gialla Post-it® che del nastro adesivo trasparente Scotch®.
Una valida strategia di tutela, definita insieme ad un professionista in P.I., consente al titolare del marchio di orientare il proprio titolo sul mercato in maniera corretta e fruttuosa dal punto di vista commerciale, beneficiando delle potenzialità del marchio ma altresì ricorrendo anche alle azioni a tutela del marchio stesso e degli investimenti fatti.